Il poeta di Kel-brunna è un Orfeo dei nostri tempi che si cura con parole insofferenti dell'arte tradizionale eppure tradizionali, nutrite dal desiderio di esprimersi in forma di libertà eppure debitrici di un disincantato senso di appartenenza, illuso di combattere il tempo e di farsi carico della sua esperienza e di quella dell'umanità che egli ha sperimentato.

L'arte è lenitiva, forse curativa? Qual è il suo immaginario? Lo scrittore ha un suo regno? Si sente padrone almeno della sua spada? È un cavaliere crociato o un impiegato statale? La sua disillusione ha intaccato pure la sua indole? Qual è la sua extrema ratio? Fare l'Orfeo picaresco?

No, è un Orfeo senza Euridice, sintonizzato con il tempo messogli a disposizione. Adulto. Non più sognatore se mai lo è stato, ma emancipato e disincantato. Vorrebbe sfrecciare "a cavallo di conigli, porci, fraterni ciuchi, per le strade e rendere [gli altri] ilari di [lui], di [loro stessi], delle [loro] stesse prigioni", ma non è un giullare, conosce il principio di realtà e sa che la realtà è nella relazione tra i fenomeni, e tra questi e gli uomini. E mantiene per questo la lucidità necessaria a non figurare uno sconsiderato, un inaffidabile, una voce nel deserto, una voce come un'altra. Conserva dunque il suo istinto di ribelle nella scorza dell'adattato, dell'uomo convenzionale e rispettabile, così da avere l'opportunità non ripetibile di "poter dire". Sì, dire, in solitudine, in cecità, in sospensione, appeso, per fare della poesia un'offerta e non uno sfogo, un dono agli altri simili e anche ai dissimili, "perché si fermi il tempo", nostro perenne avversario, di noi titani o di noi assuefatti (ciò è irrilevante) "e non fluisca il dolore".

Il poeta, in definitiva, non è consolato dall'arte, che egli pratica come espressione di ciò che immagina e prefigura ovvero come l'ultima finzione. Essa di fatto non gli gioverà, ma gli permetterà di fare rivelazioni e dispensarne i bagliori. Se c'è giovamento, sarà del lettore.

[…] L'uomo "smisurato" della nostra epoca ne esce ad ogni buon conto marginalizzato: gli spiriti della tradizione prendono qui rilievo su di un uomo rastremato verso il basso – e quanto mai bisognoso di "monumenta" – e su di esso epicamente incedono, sorretti, oltre che dalla misteriosità e dalla temibilità loro peculiari, dallo stesso registro narrativo che riecheggia le costruzioni e le cadenze metriche della poesia classica. […]

Attraverso questo "viaggio di un contemporaneo fra le leggende della sua terra", [gli spiriti della tradizione] si fanno oracolo di nuovi ammonimenti per gli uomini dei nostri tempi e quindi, specularmente, anche per l'Autore che tra questi si colloca con il sottotitolo. […].

Ma quegli spiriti, lungo il rabdomantico vagabondaggio dell'Autore, si fanno oracolo anche di ciò che di arcano e di fatale è annidato nelle cose dell'esistenza e che inutilmente ci si illude di tacitare – mentre invece si finisce per complicare ed irritare – attraverso l'orgia tecnologica e consumistica.

È così che Lusiera, sogno-baluginio, sfugge con la sua naturale semplicità all'uomo che, da tanti affanni distratto, non ha tempo e modo di "avvertire" e che non è più aperto allo stupore ed evita di fare i conti con l'arcano, anche solo percepito; gli sfugge così quel luccichio che è, ad un tempo, sorriso e pianto e, nel suo contraddirsi, ineffabile dolcezza. Quest'uomo che non è forse più capace di trasfigurare la natura e i suoi eventi, facendoli propri attraverso quel sortilegio mentale che rendeva sopportabile il duro vivere di ogni giorno lungo i complementari sentieri del sogno, e che dava, poi, forma e colori rarefatti a leggende e fiabe […]. E quest'uomo ad altri affari intento, può buttare infine via la vita, inseguendo le cose materiali, fattesi fallace simulacro, apparenza, miraggio, come "la scrofa e i sette porcelli", quando, col suo trafficare cieco, non arrivi a scatenare "i cani assopiti" e non si trovi, egli stesso, inseguito e braccato […]